di Gorazd Skrt, fondatore di Lovely Trips, fornitore sloveno di soluzioni di viaggio
Erwin Rommel è una figura nota agli appassionati di storia militare. Una figura nota, e tragica. Nato in una cittadina del sudovest della Germania nel 1891, sposato con una donna di origini italiane e polacche, morto nel 1944 (suicida: fu implicato nel piano per uccidere Hitler, ma poiché era un eroe nazionale il regime gli consentì di togliersi la vita ed evitare un processo-farsa che sarebbe comunque sfociato in una condanna a morte), Rommel guidò le truppe italo-tedesche nello scontro con le forze alleate in Nordafrica, dimostrando una tale perizia da guadagnarsi il soprannome di Volpe del deserto, e l’ammirazione di milioni di connazionali (e persino dei nemici).
Rommel, che alla fine divenne feldmaresciallo del Terzo Reich, fu una delle menti militari più fini della Seconda Guerra Mondiale. Ma diede dimostrazione della sua capacità già nella giovinezza, durante la Grande Guerra: in Francia, in Transilvania e soprattutto sul fronte italo-austriaco. Egli divenne un esperto nell’infiltrazione, e nell’avanzare rapidamente e attaccare il nemico alle spalle, di sorpresa.
Durante la Dodicesima battaglia dell’Isonzo, nell’ottobre del 1917 (nota agli italiani come Battaglia di Caporetto), a Rommel bastarono quattro giorni di combattimento alla testa del battaglione del Württemberg dell’Alpenkorps, per arrecare gravissimi danni alle forze italiane. Il giovane Oberleutnant riuscì, con una serie di abili attacchi a sorpresa (e ingenti forze focalizzate su pochi punti chiave), concluse una serie di rilievi strategici, incluso il monte Matajur (la cui conquista il 26 ottobre fu annunciata da tre razzi verdi e uno bianco).
La strategia di Rommel (che portò alla cattura di 8mila uomini, e alla morte di pochissimi suoi commilitoni) conteneva in nuce ciò che egli avrebbe poi fatto, sui campi di battaglia della Libia e dell’Egitto, molti anni dopo. La futura Volpe del deserto avrebbe continuato la sua marcia verso Milano, superando il Tagliamento, sino al Piave, dove l’accanita resistenza dei soldati italiani arginò la marea degli austroungarici e dei tedeschi, impedendo la conquista del Veneto e la ritirata oltre il Mincio.
Caporetto è ancora oggi sinonimo di disfatta per gli italiani, proprio come Vittorio Veneto è sinonimo di vittoria. Ma poiché chi non conosce la storia è destinato a ripeterla, visitare i luoghi della battaglia è estremamente istruttivo, per gli adulti così come per i più giovani. A questo proposito, il Museo di Caporetto è un’istituzione imperdibile per conoscere meglio gli avvenimenti del fronte isontino grazie alla sua ricchissima collezione di armi, strumenti, oggetti di uso quotidiano e fotografie, oltre che di materiale iconografico per illustrare l’evoluzione dei combattimenti e delle battaglie.
Il secondo piano del museo, ad esempio, è tutto dedicato all’evento finale del fronte isontino: la 12esima battaglia dell’Isonzo, alias battaglia di Caporetto. Sono illustrati gli avanzamenti e gli arretramenti degli eserciti coinvolti, le difficoltà di una vita da soldato in piena guerra in uno dei fronti più sanguinosi della Grande Guerra, e una ricca serie di fotografie permette di immergersi anche nella frenesia dei preparativi nella piana di Bovec e l’avanzata condotta da Erwin Rommel alla conquista della cima del Matajur (1641 m).
L’ultimo coro dell’Edipo dice: “Non dire di un uomo che è felice sinché non è morto”. La guerra è l’antitesi della felicità, e il Museo di Caporetto lo dimostra. Non sapremo mai cosa pensò Rommel mentre ingeriva il veleno che le autorità gli fornirono per suicidarsi. Però sappiamo che la sua storia merita di essere conosciuta, così come quella di tutti coloro che a Caporetto combatterono, soffrirono, caddero.
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